Comedy inglese demenzialissima che neanche tanto velatamente prende in giro il colosso Downton Abbey, narra le (ridicole) vicende della famiglia Bellacourt e della servitù. Protagoniste del pilot sono le due sorelle Beatrice e Lilian le quali mirano a raggiungere le vette più elevate della società londinese del 1902 con ogni mezzo possibile. Carino ma un filino troppo idiota in alcuni passaggi.
Concepita, come ci suggerisce il titolo, come una moderna rivisitazione dell’epico viaggio di Ulisse, questa serie intrisa di patriottismo a stelle e strisce trae fonte di ispirazione da Traffic di Soderbergh. Nella tormentata Africa del nord, il sergente Odelle Ballard scopre in alcuni file che una grande società americana stia finanziando i jihadisti. Prima che possa fare qualunque cosa, la sua unità viene decimata in un agguato e lei sembra essere l’unica sopravvissuta (per caso). Nel frattempo in patria l’ex procuratore Decker lavora per la stessa società che stava fornendo risorse ai jihadisti ed un giovane e attivista incontra un hacker, il quale crede di aver scoperto le prove di una gigantesca cospirazione militare.Vicende che si intrecciano e che hanno uno scopo comune, raccontate con estrema serietà in questo American Odyssey. Sembrerà anche a noi di essere complici di una cospirazione o di non fare abbastanza per evitarla. Una serie che sembra nata dalla mente dei peggior complottisti e che diviene poco credibile proprio nel momento in cui esagera. Serie che piacerà davvero molto ai fanatici americani ma il cui successo, temo e mi auguro, rimarrà confinato all’interno del confine USA.
In onda questa estate sulla ABC, The Astronaut Wives Club è una serie dalla lunga gestazione, che doveva originariamente andare in onda addirittura lo scorso anno, ma che per una serie di scelte e vicissitudini è slittata a questa estate 2015. Tratta da un libro, la serie ci racconta le avventure quotidiane di un gruppo di donne, mogli devote di alcuni degli uomini più famosi dell’America dei primi anni ’60, quando la NASA tentava di conquistare lo spazio prima dell’impero sovietico, a tutti i costi. I candidati astronauti, da addestrare duramente per il progetto Mercury ma anche da far conoscere ai cittadini (ed elettori) anche attraverso le patinate pagine dei giornali, sono diversi, così come lo sono le loro consorti. Quello che incuriosisce maggiormente lo spettatore che si avvicina alla serie è il cast: tutti (o quasi) i protagonisti sono volti noti, già visti in serie molto famose: JoAnna Garcia Swisher (Once Upon a Time), Yvonne Strahovski (Chuck), Odette Annable (Banshee), Desmond Harrington (Dexter), Bret Harrison (Reaper) e Wilson Bethel (Hart of Dixie). La serie, nonostante il ritmo sonnolento, riesce discretamente a ricreare le atmosfere degli anni ’60 americani: colori pastello, acconciature morbide e grandi sorrisi sfoggiati da mogli il cui compito principale era essenzialmente quello di restare al fianco dei mariti, a dispetto di tutto, salvando ad ogni costo le apparenze. Pieno zeppo di stereotipi e mancando di ogni tentativo di originalità, il drama estivo di ABC merita la sufficienza soltanto per la buona interpretazione delle donne del cast.
Un paio di anni fa pubblico e critica acclamarono una serie di produzione francese, andata in onda su Canal+ dal titolo Les Revenants, che in italiano assume lo stesso significato di questo suo “clone” americanissimo, e che ci introduce alcuni personaggi, per l’appunto, ritornati in vita. In questo caso iniziamo subito a conoscere Camille, morta a sedici anni insieme ad alcuni compagni di scuola precipitando da un dirupo con lo scuolabus. La ritroviamo che vaga dal luogo dell’incidente fino a casa, apparentemente immutata d’aspetto, inconsapevole che nella realtà non siano passate poche ore ma anni. Per questo sia a sua mamma che soprattutto alla sorella gemella viene un coccolone appena la vedono rientrare in casa.
Conosceremo pian piano altri personaggi, deceduti in circostanze diverse e decisi a riprendersi ognuno la propria vita, chi cercando di riconquistare una vecchia fiamma, chi decidendo che vivere (di nuovo) sia intollerabile. Una storia intrigante che ricorda moltissimo l’originale transalpino, seppure visibilmente adattato per i gusti d’oltreoceano (faccio riferimento in questo caso alle scelte di casting) e che nel passaggio perde molta della forza narrativa, riducendo enormemente l’alone di mistero attorno al paese e agli avvenimenti. Un problema analogo lo ha avuto Gracepoint, trasposizione dell’ottimo Broadchurch, che malgrado le buone intenzioni e la scelta di mantenere l’attore protagonista, è risultato essere una brutta copia dell’originale britannico.In questo caso gli sforzi sono stati meglio ripagati ed il risultato è egregio, godibile ed interessante, seppur neanche lontanamente paragonabile all’originale.
Prendi Jennifer Beals (indimenticabile Bette Porter di The L Word) e falle indossare le vesti, anzi i camici, da cardio-chirungo con i contro cavoli e hai già la ricetta vincente per attirare qualche incuriosito spettatore. Il problema di mantenere tale spettatore sorge quando il suddetto s’inoltra nell’ORIGINALISSIMA trama di questo nuovo prodotto delle rete americana TNT, quella di Rizzoli & Isles e del compianto Perception per intenderci. La storia difatti ruota intorno alla protagonista Carolyn Tyler (la Sig.ra Beals appunto) che dopo aver vissuto un’esperienza di quasi morte,e nel frattempo aver subito la perdita del figlio maggiore, viene avvicinata dal ricco benefattore di turno il quale sta per soccombere ad un brutto male e non vuole spirare prima di sapere se effettivamente c’è, o non c’è, un aldilà. Al fine di soddisfare questa eternamente umana curiosità chiede alla nostra protagonista d’indagare su casi di gente i quali affermano di aver vissuto esperienze di quasi-morte simili alla sua. Sebbene il prodotto possa far decisamente storcere il naso sopratutto per una neanche troppo velata intromissione religiosa decisamente stucchevole, una regia dal tocco quasi asettico ed interessante nonchè la protagonista (sulla quale l’impianto narrativo poggia pesantemente) rendono i canonici quaranta minuti di proiezioni tollerabili. Da seguire solo se non si devono recuperare serie più importanti, più interessanti, o divertenti, insomma qualsiasi altra cosa tralasciata durante il lungo inverno, compreso passare la scopa a vapore tra le mattonelle della cucina della zia.
Se “angelo caduto” per voi era solo una metafora, per gli autori di The Messengers è stato l’input necessario per narrare l’intera vicenda. Impietosamente cancellata dopo un paio di episodi trasmessi, la serie ci racconta le conseguenze della caduta di un sospetto asteroide sul nostro pianeta. L’onda d’urto sprigionatasi al momento dell’impatto provoca la morte immediata di un manipolo di persone random sparse per il mondo, che però si “risvegliano” quasi subito, altrettanto inspiegabilmente. In realtà dal cratere derivato dalla caduta, emerge un losco figuro, che impareremo a chiamare Il Diavolo (ebbene sì -.-) e che sembra avere tutte le intenzioni di scatenare l’Apocalisse, servendosi dei messaggeri, i sopravvissuti di cui sopra, che dal loro risveglio sembrano manifestare strani poteri sovrannaturali (e le alucce che spuntano loro dalle spalle).
Dopo 7 stagioni di Buffy e 10 di Supernatural, l’Apocalisse paventata da questo subdolo tentatore atterrato rovinosamente sul pianeta sembra tanto irreale quanto le fantomatiche ali di pollo che spuntano ai messaggeri, impegnatissimi nella faraonica impresa di fermare il Diavolo dal raggiungimento dei suoi scopi distruttivi. Una serie che definire inutile è riduttivo.
La mite estate canadese regala allo spettatore vorace e sempre alla ricerca di nuovi pilot questo Between, serie tutta nuova e co-prodotta da Netflix ed il network City. Nella cittadina canadese di Pretty Lake gli abitanti iniziano improvvisamente a morire, uno dopo l’altro, per una strana quanto misteriosa epidemia. In breve tempo la popolazione si riduce ai minimi ed i pochi sopravvissuti hanno sempre più domande e sempre più paura di essere i prossimi a soccombere al misterioso morbo, che uccide in brevissimo tempo e senza alcun preavviso. Il governo deciderà quasi subito di isolare la città, mettendo i superstiti in quarantena forzata, impedendo ogni ingresso o uscita dai confini di Pretty Lake. Una trama per nulla originale per una storia pensata come teen drama e che coinvolge lo spettatore perfino meno di un granello di polvere sospinto dal vento. Sa di già visto e non aggiunge nulla di originale. Anche Netflix non può azzeccarle tutte.
Rilasciando tutti gli episodi online prima della canonica messa in onda scaglionata, la NBC ha stupito un po’ tutti questa estate. Abituati a maratone di binge watching grazie a Netflix & co. (e qui intendo soprattutto amazon e yahoo) abbiamo ringraziato con un’ombra di commozione e ci siamo buttati a capofitto, nonostante questo inizio estate 2015 pulluli di pilot nuovi ed interessanti. Per me è strato tornare a provare curiosità per un prodotto NBC dopo l’immensa delusione della cancellazione del mio amato Constantine (sigh!) ma l’accoppiata attore protagonista – tematica era troppo succulenta per non approfittare dell’orgia di episodi e dare una sbirciatina. Fine anni ’60, estate del 1967 per essere precisi, nell’America coloratissima e spensierata dei figli dei fiori, che cantavano inni pacifisti e speravano di cambiare il mondo, un certo Charles Manson iniziava a creare una piccola comunità di emarginati e ragazze affascinate dalla sua personalità, disposte a tutto per lui. Un nome, quello di Manson, famoso come pochi, capace di evocare crimini efferati e storie di manipolazione. La sua figura emblematica si scontra in Aquarius con un poliziotto, Sam Hodiak, interpretato dall’evergreen David Duchovny, tipico esponente della generazione precedente a quella degli hippy, il quale si imbatte per la prima volta in Manson cercando di riportare a casa la figlia di un’amica. Gethin Antony, che fu Renly Baratheon in Game of Thrones) ci tratteggia un Manson ancora acerbo, ma con tutte le carte in regola per diventare l’icona criminale che è ancora, ma senza sviluppare mai nemmeno un pochino il suo immenso potenziale. Raccoglie seguaci e a formare quella che sarà storicamente ricordata come la Manson Family, ma sembra sempre che la cosa gli riesca naturale, e che egli stesso spesso se ne stupisca.
Una serie su cui fatico ad esprimere un giudizio, che scorre lenta e per nulla avvincente sulle note di brani iconici di quegli anni, e che sembra un esperimento presuntuoso, il tentativo di raccontare la storia di Manson senza indagarne la psiche criminale. Duchovny si riconferma adatto a qualsiasi ruolo, mentre il suo giovane collega libertino Brian Shafe si lascia più guardare che ascoltare. Un’occasione persa.
Un anno fa, quando uscivano le prime news su questa nuova produzione della neo-coppia Marvel-Netflix, ho storto subito il naso. Con ancora nella testa il pessimo film del 2003 con Ben Afflek, la cui incapacità nel rappresentare il personaggio è stata solo uno dei motivi che hanno reso quel film il punto più basso raggiunto da un film con personaggi Marvel (tanto quanto Lanterna Verde per la diretta concorrenza, giusto per non far torto a nessuno).
Ma riponevo ugualmente un briciolo di fiducia nel nuovo progetto, perchè la Marvel stessa è stata più volte in grado di stupirmi e di rivoluzionare se stessa e perchè, ormai, Netflix è una garanzia, sinonimo di coraggio e di qualità. Lanciare proprio il giustiziere di Hell’s Kitchen come primo prodotto di una apparente lunga collaborazione tra i due colossi è stata una scelta altrettanto coraggiosa. Daredevil non è stato un personaggio molto sfruttato, eppure la sua cerchia di fans affezionati l’ha sempre avuta. Era quindi giunto il momento di dimenticare l’infinita tristezza del film menzionato in precedenza e rispolverare il diavolo rosso senza paura.
Invece della solita, spettacolare e colorata furia dei supereroi a cui siamo abituati, ci troviamo di fronte una serie cupa, noir e seria, che ci farà commuovere ma anche un po’ sorridere, ma che per la maggior parte del tempo ci stringerà lo stomaco come delle tenaglie.
Il pilot di Daredevil ci consegna un Mattew Murdoch più simpatico e “puccioso” rispetto a come lo conoscevamo, ed in questa caratterizzazione Charlie Cox, che al giustiziere presta volto, corpo e voce fa un lavoro più che ottimo, impreziosendo il già egregio lavoro di sceneggiatura e fotografia (no, Hell’s Kitchen non è solo scura e nera, è molto di più). La rabbia è il fuoco che alimenta la sua ossessiva voglia di giustizia e che rischia seriamente di mettere in discussione sia carriera che vita affettiva del buon Matt.
A far da contorno ad un protagonista perfetto ci sono un antagonista di egual spessore e valore (un Vincent D’Onofrio che è stato un piacere ritrovare) ed una trama avvincente, che si sviluppa quasi in tempo reale nell’arco dei 13 episodi che compongono la prima stagione (per fortuna non l’unica).
Una bella e piacevole sorpresa, che rende ancor più evidenti le pecche e gli errori di “serie colleghe” come Arrow e l’altra creatura Marvel, Agents of S.H.I.E.L.D. e che è stato un piacere divorare in 2 giorni, rendendo onore all’idea di binge watching introdotta da Netflix.
There are no heroes. No villains. Only people with different agendas.
Un tempo erano i vampiri, ora sono gli zombie.
Questi putrescenti esseri che infestano le fantasie infantili al giorno d’ggi invece infestano ogni mezzo d’intrattenimento, spaziando dal cinema ai libri e,ovviamente,ai fumetti.
IZombie nasce come adattamento ai fumetti editi dalla Vertigo (DC Comics), partoriti dalle menti di Chris Roberson e Michael Allred.
La storia si concentra sulle vicende di Liv Moore (gioco di parole decisamente carino) la quale passa nel giro di una nottata da studentessa di medicina perfetta con fidanzato perfetto e vita perfetta a sfigatissima assistente medico legale per colpa di una lesione causatale da uno zombie durante una festa, determinando la trasformazione della nostra protagonista in mangia-cervelli.
Quello che rende questa serie davvero interessante e piacevole è proprio la trasformazione di Liv, sia nel look che nello stile di vita, in particolare la scelta di divenire medico legale per poter aver a disposizione cervelli in quantità da degustare (Hannibal farebbe la ruota dalla gioia); a questo si unisce il classico aspetto procedurale introdotto dalla capacità di Liv di ottenere le caratteristiche e la personalità della persona di cui si ciba, utilizzando tale capacità per aiutare il detective di turno a risolvere il caso settimanale.
Prodotto leggero e originale che può ricadere facilmente nella categoria “guilty pleasure” ma che merita senza dubbio un’opportunità.
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